G. Doré, I golosi della VI Cornice,
Forese parla di Piccarda e indica altri golosi (1-33)
"La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, triunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona"...
"O frate, issa vegg'io", diss'elli, "il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo! ..."
"Or va", diss'el, "che quei che n'ha più colpa,
vegg'io a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa..."
Simone de Brie (papa Martino IV) |
Dante e Forese Donati continuano a parlare e a camminare lungo la VI Cornice, senza rallentare, mentre le altre anime dei golosi osservano Dante stupite del fatto che sia vivo. Il poeta afferma che Stazio procede lentamente verso l'alto per trattenersi con Virgilio, poi chiede all'amico se sa qual è il destino ultraterreno della sorella Piccarda e se fra i compagni di pena vi sono personaggi degni di nota. Forese risponde che la sorella, bella e buona quand'era in vita, ora è fra i beati in Paradiso, quindi afferma che è necessario nominare le anime rese irriconoscibili dalla magrezza. Forese mostra col dito l'anima di Bonagiunta da Lucca e, accanto a lui, quella di papa Martino IV di Tours, che sconta il suo amore per le anguille e la vernaccia. Nomina altre anime di golosi, tutti contenti di essere indicati: fra di essi ci sono Ubaldino della Pila, Bonifacio Fieschi, Marchese degli Argugliosi che quando era vivo a Forlì bevve in modo smodato.
Incontro con Bonagiunta Orbicciani (34-63)
Dante nota che Bonagiunta si mostra più degli altri desideroso di parlargli, mentre intanto mormora un nome che gli sembra «Gentucca», a fior delle labbra che sono tormentate dalla fame e dalla sete. Dante si rivolge a lui e lo invita a parlargli, al che Bonagiunta risponde che nella sua città, Lucca, è già nata una femmina che è ancora giovinetta e che avrà modo di ospitarlo durante il suo esilio. Il penitente invita Dante a ricordarsi la sua profezia, che sarà avvalorata dai fatti, quindi gli chiede se sia proprio lui il poeta che ha iniziato le nuove rime con la canzone Donne ch'avete intelletto d'amore. Dante spiega di essere un poeta che, quando scrive, segue strettamente la dettatura di Amore: Bonagiunta afferma di capire quale differenza separa lui, Giacomo da Lentini e Guittone d'Arezzo dal «dolce stil novo» che Dante ha appena definito. Il penitente comprende che gli stilnovisti seguirono l'ispirazione amorosa, a differenza sua e dei poeti della sua scuola, quindi tace mostrandosi soddisfatto della risposta.
Profezia della morte di Corso Donati (64-93)
Morte di Corso Donati (min. XIV sec.) |
Le altre anime si allontanano da Dante affrettando il passo, simili alle gru che svernano lungo il Nilo, camminando spedite per la magrezza e la volontà di espiazione. Solo Forese resta con Dante, camminando lentamente e lasciando andare avanti gli altri golosi, chiedendo poi all'amico quando lo rivedrà. Dante risponde di non sapere quanto gli resti ancora da vivere, ma certo è grande il suo desiderio di staccarsi dalle cose terrene e di lasciare la città di Firenze, che di giorno in giorno mostra il suo declino morale. Forese ribatte che molto presto il principale responsabile di questa situazione (il fratello Corso) verrà trascinato all'Inferno legato alla coda di un cavallo, che lo sfigurerà orribilmente. Non passeranno molti anni, aggiunge, prima che i fatti chiariscano a Dante il senso della sua oscura profezia. Alla fine delle sue parole Forese si accommiata da Dante e raggiunge i compagni di pena, per non perdere troppo tempo nell'espiazione delle sue colpe.
Arrivo al secondo albero (94-120)
Forese si allontana a passi rapidi, simile a un cavaliere che esce di schiera al galoppo per scontrarsi col nemico, mentre Dante resta in compagnia di Virgilio e Stazio. Il poeta segue Forese con gli occhi, finché scorge un secondo albero i cui rami sono carichi di frutti. Sotto di esso i golosi alzano le mani verso i rami e gridano parole incomprensibili, come dei bambini di fronte a un adulto che ammannisce loro qualcosa che essi desiderano. Alla fine le anime si allontanano e i tre poeti raggiungono a loro volta l'albero, dove sentono una voce che dichiara che quella pianta è nata dall'albero dell'Eden il cui frutto fu morso da Eva e li invita a passare oltre. I tre si stringono alla parete del monte e proseguono.
Esempi di gola punita (121-129)
La voce riprende poco dopo per ricordare esempi di gola punita, fra cui quello dei centauri che, nati da una nube, ubriachi, combatterono Teseo, e degli Ebrei che si mostrarono inclini al bere, per cui Gedeone non li volle come soldati nella guerra combattuta contro i Madianiti. I tre poeti passano oltre stringendosi all'orlo interno della Cornice, mentre ascoltano quegli esempi di gola cui seguì un duro castigo.
L'angelo della temperanza (130-154)
Oltrepassato l'albero, i tre poeti proseguono nella Cornice ormai deserta, ciascuno meditando su ciò che ha udito. A un tratto sentono una voce che chiede loro cosa pensano, per cui Dante si scuote: alza lo sguardo e scorge l'angelo della temperanza, che rosseggia come un metallo arroventato e invita i tre a salire lì se vogliono accedere alla Cornice successiva. Dante è abbagliato da quella vista e segue gli altri due ascoltandone le voci, mentre sulla fronte sente un dolce vento simile a una brezza primaverile, prodotto dalle piume dell'angelo che cancella la sesta P. L'angelo dichiara beati coloro che sono illuminati dalla grazia e non sono troppo inclini alla gola, avendo sempre desiderio del giusto.
Note e passi controversi
I vv. 16-17 (Qui non si vieta / di nominar ciascun) indicano probabilmente solo il fatto che è necessario indicare per nome le anime, rese irriconoscibili dalla magrezza, e non il divieto di indicare i penitenti che in questa Cornice non sarebbe in vigore (di tale divieto non c'è alcun accenno negli altri Canti).
Al v. 21 trapunta significa «screpolata» a causa della magrezza.
Il personaggio citato ai vv. 20-24 è Simone de Brie, nativo di Tours (Torso) che fu papa col nome di Martino IV e la cui ghiottoneria era diventata proverbiale: si narra che uscendo dal concistoro spesso dicesse: O Sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia Dei! Ergo bibamus! («O Dio Santo, quante fatiche sopportiamo per il bene della Chiesa! Dunque beviamo!»).
La vernaccia citata al v. 24 è sicuramente la Vernazza, un vino delle Cinque Terre e non il vino sardo con lo stesso nome.
Il v. 30 (che pasturò col rocco molte genti), riferito all'arcivescovo di Ravenna Bonifacio Fieschi, è stato variamente interpretato per il senso non chiaro di rocco: potrebbe essere la punta del pastorale dei vescovi ravennati, simile a un prisma esagonale che veniva detto «rocco» dal persiano rokh, da cui il termine scacchistico «arroccare». Il verso vorrebbe dire allora che Bonifacio guidò (pasturò, conio dantesco) molte popolazioni col suo pastorale, senza alcun intento ironico legato al «pascolare» e alla colpa della gola.
Il nome Gentucca mormorato (v. 37) da Bonagiunta è stato variamente interpretato, anche se l'ipotesi più probabile è che si riferisca alla donna lucchese poi indicata dal penitente come colei che ospiterà Dante nel suo soggiorno in quella città durante l'esilio (vv. 43-45). Costei è ancora una giovinetta in quanto non porta la benda nera che copriva i capelli alle donne maritate, secondo gli statuti comunali.
Al v. 55 Issa vuol dire «ora» ed è voce lucchese affine a quella lombarda Istra di Inf., XXVII, 21.
La valle ove mai non si scolpa (v. 84) è certamente l'Inferno, anche se alcuni hanno pensato a Firenze, dove «non si cessa mai dalle colpe».
Al v. 99 marescalchi (dal franco marhskalk, «servo del cavallo») indica «maestri», «guide».
Al v. 104 pomo significa «albero».
Il v. 105 (per essere pur allora vòlto in laci) può voler dire che Dante, solo dopo aver svoltato la curva del monte, vede in lontananza l'albero, ma anche che solo in quel momento ha rivolto lo sguardo alla pianta, mentre prima osservava Forese che si allontanava.
La rima sol tre (v. 133) è composta e va letta «sòltre».
Al v. 135 poltre vuol dire «pigre», «tranquille» e meno probabilmente «giovani».
Ai vv. 151-154 l'angelo della temperanza dichiara parte della quarta beatitudine, Beati qui esuriunt iustitiam, mentre quello della giustizia aveva detto Beati qui sitiunt iustitiam; qui Dante parafrasa il passo evangelico e indica beati coloro che hanno un amore giusto e misurato verso il cibo.
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