L’ultimo verso del Paradiso di Dante, l’ultimo verso della Commedia. Certo, è un verso che viene dopo l’ultima terzina, conclusivo, ed è parte di una frase poetica, che è questa:
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
L’amore, quell’amore che è principio e anima dell’universo, quell’amore che muove il sole e le stelle, volgeva già il desiderio del poeta e il suo volere, lo volgeva, cioè accoglieva, nel suo ritmo, come ciascun punto di una ruota partecipa del movimento che ad essa è impresso. L’ultimo verso dice, dopo l’estrema visione, l’appartenenza dell’essere umano, di ogni essere, al ritmo dell’universo, all’unico movimento, un movimento che ha come sorgente e anima l’amore. Il libro della Commedia, il grande viaggio nei tre regni in cui vivono passioni e memorie e gesti e fremiti e sogni e fantasmi terrestri, ha al suo estremo la sconfinata apertura di una fisica cosmologica nella quale principio e respiro, energia e movimento sono compendiati nella parola amore. L’ultimo verso rinvia certo al movimento che apre la prima cantica, “La gloria di colui che tutto move”, ed ha la stessa apertura verso il cielo notturno e stellato, che è detta nella chiusa delle precedenti cantiche, dove sigillo ed emblema è ugualmente la parola stelle: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”, ultimo verso dell’ Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle”, ultimo verso del Purgatorio. Ma qui sentiamo che la congiunzione di amore e stelle (“L’amor che move il sole e l’altre stelle”) è misura e respiro dell’universo e compendia tutta la tradizione che ha legato l’amore, la poesia d’amore, alla cosmologia, al cielo stellato, al desiderio d’infinito.
Dante dà fondamento anche con questo ultimo verso – “l’amor che move il sole e l’altre stelle” – alla poesia d’amore occidentale, la quale declinerà in mille varianti la relazione tra l’amore e l’orizzonte cosmologico e stellare. Ma quest’ultimo verso raccoglie anche, come in uno sconfinato abbraccio, tutto quel che il canto, il XXXIII del Paradiso, il canto dell’ultima visione, ha messo in scena. A partire dalla preghiera di san Bernardo alla Vergine, nel corso della quale il santo indica, come in una pala d’altare, il poeta, il penitente giunto al termine della sua peregrinatio nell’oltremondo. Il poeta è invitato da Bernardo, dopo la bellissima sua intercessione, a rivolgere lo sguardo verso l’alto. Dove si dischiude il trionfo della luce. La luce, qui, è pura luce, non affidata a raffigurazioni di colori e forme: non ci sono esseri di luce con il loro volto, le loro ali fiammeggianti, le loro vesti abbaglianti. La luce è tutta dispiegata nella sua astrazione, nella sua coincidenza con la verità, potremmo dire. Portare nella lingua il sentimento di questa visione di luce è impossibile, c’è solo il resto, il riflesso, la traccia, di questa visione: come il sentimento del sogno che persiste dopo che il sogno è svanito, lasciando una diffusa dolcezza, come la neve che al sole si scioglie, si dissigilla, come le foglie lievi su cui la Sibilla scriveva i responsi, foglie subito perse nel vento. Una dolcezza resiste dopo la visione. E il lettore può evocare la stessa dolcezza che appare nell’ultimo verso dell’Infinito leopardiano, “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, anche quella dolcezza resto di un’estrema impossibile visione.
Ma lo sguardo di Dante tenta l’azzardo: “Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Riesce a vedere “la forma universal di questo nodo”, il nodo che unisce sostanze e accidenti, il nodo che lega ogni cosa del mondo: respiro dell’universo, del suo ordine. Ma si può rendere visibile, dicibile la divinità? Dante ne dà solo una similitudine: tre cerchi “di tre colori e d’una contenenza”. Solo un’approssimazione, una terrestre raffigurazione. In quella “luce eterna” che è intendimento di se stessa, amore di se stessa, ordine impenetrabile, fondamento che sfugge allo sguardo, il poeta non può penetrare, e tuttavia gli sembra che in quella luce traspaia un colore, un’immagine: “mi parve pinta della nostra effigie”. È l’immagine della terrestrità, del vivente umano osservato nel cuore di uno splendore indecifrabile. E il poeta si ferma dinanzi a ogni altro azzardo della comprensione, e della visione, come il geometra dinanzi al problema della quadratura del cerchio, si attesta sulla soglia delle approssimazioni per immagini, della lingua come luogo delle parvenze, delle tracce, dei riflessi d’una verità sottratta da sempre alla comprensione. Un ultimo fulgore percuote la mente e porta il desiderio di conoscenza verso la sua meta, ma in quell’istante cessa ogni fantasia, deflagra ogni potenza fantastica. Il poeta è già nel cuore di quel movimento che ha l’amore come principio, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.
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